Cenni Storici

Parole pronunziate da Giosuè De Agostini su la tomba dei sei patrioti estinti per mano degli assassini il giorno 9 giugno 1863 nella landa appenninica, tenimento di San Marco.
Non par vero! Su la patria nostra serpeggia, è ormai il terzo anno, il drago della tempesta dagli occhi fascinanti, lingua di fuoco, bava pestifera, denti ed artigli insanguinati, che intossica, uccide, schianta, rade, distrugge quanto cade tra le sue spire…il brigantaggio! Volgeva l’anno ’61. Colle era occupato dai briganti, e alla lor volta i mandamenti di Sangiorgiolamolara, di Pesco, di Pontelandolfo. Voi tutti qui opponendo non le improvvisate barriere ma il forte usbergo del vostro valore ne scongiuraste e stornaste l’imminente rovina. E Circello fu salvo: salvo l’onore delle donne nostre, salve la vita e le sostanze; a lode, reputazione ed encomio di voi, bravi Circellesi e più di chi dirigeva. Ma ohimé! di tanta gloria, guadagnata mercè la concordia, la costanza, lo zelo dei Capi e la disciplina e connivenza dei dipendenti doveva ecclissarsi lo splendore in poco d’ora di mal auspicato giorno. Recrudescente questa piaga sociale invade, opprime, desola le nostre province e lascia tali e tante tracce di lamenti, di spavento, di dolore da non potersi neppure mentovare. Feroci, disumani, snaturati masnadieri, iniqua prosapia, feccia, rifiuto delle terre ove sortirono oscurissimi natali, un branco della più vile canaglia, ne infesta, come altri altrove, fra il Tammaro, il Calore, il Fortore da otto mesi, capo un Diodoro Ricciardello con 10 poi li mascalzoni a cavallo. Furti, rapine, violazioni, carneficine, sacrilegi… ecco il treno di loro trasoneria. I più distinti concittadini, gli uffiziali di Nostra Guardia nazionale, con i più animosi militi fermano in mente di purgare l’infestata contrada da questo tremendo flagello e di perseguitare e di assicurare alla giustizia cotesti già messi fuor dalla legge. Incoraggiati dalla presenza di onorevole R. Commissario oggi in Circello, il chiarissimo Dott. Pascale Verdura, che associa ad essi un caro suo nipote, misurando dal proprio coraggio quello dei compagni, si accingono alla sublime impresa. E risolutamente muovono in traccia della trista masnada che pochi giorni or sono seviziava e massacrava un infelice villano, catturava a riscatto onesto massaio di Circello. Il nove volgente giugno 1863, giorno ferale registrato a lutto nella cronaca circellese, i dodici fuorbanditi respinti dai contadi di Pesco e Fragnetolabate, cercan di riparare nei soliti covili là a nordest di Sanmarcodeicavoti verso le alture di Mazzocca presso i boschi Decorata e contigui. Il distinto cittadino e prode Capitano Nicola Zaccari coi luogotenenti Giuseppe Tatavitto e Rocco De Bellis, i sottotenenti Donato Tartaglia, Stanislao Fiscarelli, Emiddio Cardo, e tra essi come dolcissirno amico il tenente di Guardia Mobile Francesco Verdura di Fragneto con 16 sottouffiziali ed i cittadini Ernesto Cardo testè sindaco e Giacomo Fiscarelli vicesegretario con altri scelti militi tutti esperti d’arme, aitanti e risoluti, i più tra essi ligati in parentela, 33 di numero, marciano in perlustrazione di là della via Traiana alle pendici sud-est della Faieta verso San Marco. Scorgon da lungi i fugaci, ne spiano la direzione, li considerano stanchi e risolutamente muovono a sorprenderli tra i tuguri di San Marco a sud-ovest della cresta appenninica o Toppo delle Felci. Gli vien fatto al cader del giorno raggiungerli, intimar loro la resa: gli attaccano securi del fatto proprio, poggiando su la propria bravura. Ma non era compiuto al cospetto dell’Altissimo il novero delle iniquità di quei maledetti. Non saprebbesi se sbagli, se voltar di terga di alcuni…fatalità senza dubbio; volge a sconfitta la quasi certa vittoria. Nel dirlo mi si serra il cuore! In pochi istanti cadono spenti da atroce morte il valoroso capitano Nicola Zaccari, due uffiziali: il buon Giuseppe Tatavitto, il prestante giovane Donato Tartaglia, il dolcissimo Francesco Verdura, il solerte Giacomo Fiscarelli, l’onesto Eliseo Ferraro, fratelli di sventura. E la fratellanza se non di natali e di simpatie resta quella della miscela del sangue versato invano ad innaffiare l’arido terreno. Una nera cortina qui si spande davanti ai miei occhi e ricopre la lugubre landa appenninica ove la tremenda tragedia si compie e nasconde col favor delle tenebre, passato già il sole dopo il tramonto, ogni altro miserevole spettacolo o di chi abbandona il posto e fugge, o di chi guata da non lungi e non accorre, o di chi non prodiga aiuto e sollievo ai moribondi e almeno pietosi uffizi verso le mortali spoglie dei nostri commilitoni fatti cadaveri! Sventurato Circello! Il più nobil sangue, il fiore, la cima dei tuoi abitanti pel desio di salvar la contrada dalle scorrerie di assassini caddero per le loro mani. In essi perdesti il tuo lustro, il tuo vanto, i tuoi atleti…Piangi, chè ne hai ragione; e di che altro pianger potresti? se non che quelle illustri vittime dell’onore e dell’amore de’ simili, sacrificatesi in olocausto su l’altare della patria, ne l’estremo anelito di vita ci han drizzato l’ultimo accento, ci hanno imposto un legato, ci han detto “Vendicateci!”. Paesi circostanti a Circello quanti siete: il sangue circellese versato testè dai banditi è perdita reale per noi ma la è mortale per tutti voi. Quei facinorosi oggi e la dimane i consoci loro irromperanno insolenti e beffardi ad insultarci, ad assaltarci. Già fugan dai campi i falciatori, già arman di faci la mano esecranda ad incendiar le messi, a cospargere pria terrore e paura, poi miseria e lutto. Signori, quel sangue grida vendetta all’Altissimo. E’ il momento di unirsi. Bando alle fatali discordanze, causa rimota e prossima di tante sciagure! Unione fa forza e salvamento. Ambizioni individuali, discordie civili distruggono le più nobili speranze. Solo così cader potrà una volta la malaugurata genia. Dunque concordia e all’opera! vendetta e alle armi. La truppa viene spedita prestamente a liberarci da tante calamità; ebbene, eletta schiera di coraggiosi , parenti ed amici dei carissimi estinti, giurino oggi lo sterminio associati alle truppe italiane dei fuorbanditi nemici dell’umanità; pagheranno in men che non si dica quelle belve efferate li fio di tante scelleratezze. Anime incomparabili dei nostri colleghi, parenti ed amici Zaccari, Tatavitto, Tartaglia, Verdura, Fiscarelli, Ferraro, tutti speranze dei vostri onorevoli casati, che vi immolaste vittime nel momento di salvarci onore e roba e vita, quale è il frutto raccolto da tanto sacrificio? quale elogio è a voi dovuto? Preparavamo cantici ed osanna per il vostro trionfo; l’invido destino li ha scambiati in lugubri accenti, in treni di mesto lamento circondati da gramaglie! il frutto dell’ardire fu l’immatura e violenta morte. Ogni elogio è sterile e si converte in lacrime. Chè non i desolati vostri genitori, i vecchi congiunti, le vedove spose, le amorevoli fidanzate, i teneri orfanelli che lasciaste han soli ragione a piangervi ma tutti noi come tutti che vi appartengono, che vi conoscono, vi compiangiamo e piangeremo rimembrando che non siete più! E a tutto compenso della vostra bravura veniamo a porre sulle vostra ossa che giacciono fuori della patria vostra un fiore, un ramo di cipresso, in segno di amore e di pietà. E abbiamo fede che vi abbia accolti Dio nel grembo suo. I vostri onorandi nomi saran sempre profferiti con rispetto e con passionata rimembranza e così tramandati alla posterità. Ingrato, iniquo chiunque osasse di voi mormorare. Noi tutti a voce concorde vi salutiamo benedetti. E pregandovi requie e pace vi dirigiamo l’ultimo vale! Archivio De Agostini “Brigantaggio”

Pasquale Verdura, Commissario al Comune di Circello, descrive a Giovanni De Agostini un tafferuglio avvenuto tra le Guardie Nazionali di quel paese e la “Compagnia della Filarmonica” ed esprime il suo dolore per la perdita del nipote Francesco Verdura, ucciso nel fatto d’armi del 9/VI/1863.
Mio caro Giovannino. Con mille sentiti ringraziamenti ti rendo il libro che con tanta bontà m’improntasti in momenti in cui veramente mi era necessario. Ora in verità dovrebbe fare più premura di quest’ottimo, quanto giovine e ardito, Capitano di procurarselo, ed ei lo farà certamente purché i reprobi di qui – non tristi, ma esecrandi, abbominevoli davvero, – gli lasciano il tempo di poterli colle buone richiamare al dovere pria che egli se ne annoi all’intutto e li mandi tutti al diavolo Caro Giovannino mio! Avea molta esperienza – per la mia età, se non per la mia cortissima mente – degli uomini, delle cose e delle smodate ambizioni ne’ tempi in cui viviamo, ma ciò che osservo qui mi fa perdere la bussola! La sera de’ nove andante vi fu un serio tafferuglio, tra questa G. N. e la Compagnia della Filarmonica, che ritornava da Colle alle ore tre di notte (ital.) avvinazzata, come puoi immaginare. Cercò provocare questa G. N. di servizio, con tirare, a quell’ora, de’ colpi d’arma da fuoco; e ciò, si comprende, nel doppio scopo: o la G.a non accorreva, e si attaccava di mancante vigilanza; o sarebbe accorsa, e le si sarebbero scagliati addosso per disarmarla all’improviso: – come avvenne, però per un solo, il quale non volle uccidere alcuno, perché dalla finestra di questa tua casa io gli avea imposto prudenza, anche a rischio di ricevere mazzate: purché non si fosse allarmato il Paese. Potea essere peggio, e di più gravi conseguenze, ma ciò che vi fu non è indifferente per loro carico. – Per altro son certo che risulterà a nulla, poiché son questi Camorristi protetti non solo ma consigliati pure dalle Autorità Mandamentali e Circondariali, non saprei se per interesse o per semplice simpatia. Faccian essi. – lo spero uscirmene di mezzo tra non molto, e fuggire questo maledetto paese, che mi ha cagionate insanabili piaghe, che si rincrudiscono sempre e si fanno più insoffribili per quanto maggiore è il numero de’ giorni che passano. Solo sta, Giovanni mio, che io non so di quà qual via dovrò prendere!… Nè costà, nè a Fragnito, nè a Campobasso;… nè ovunque io anderia più solo! Chi mi accompagnava dapertutto non è più! Oh, se sapessi in questo giorno come mi è straziante il dolore che tante reminiscenze mi fanno avere di lui!- E’ l’anniversario della morte di mio Padre (f. m.) di cui egli portava il nome come si è data l’altra combinazione che questa mattina mi è giunto da Colle l’estratto di sua morte! Quasi che io avessi avuto bisogno di questo futile documento per ricordarmi di lui! Ma il Padre suo afflittissimo il volea, ed io gliel’ho mandato! Quale fatalità mi condusse a questo sito!!! Ero infelice abbastanza per non aver bisogno di tanta sopraggiunta!… Perdona, caro Giovannino, se trasmetto anche a te buona parte dei miei dolori; chè tu pure amavi molto quell’anima benedetta. Ma nella solitudine in cui sono mi è pure di un certo sollievo versar parte delle mie pene ne cuori che san sentirle! Scriverò a Giosuè tra due, o tre giorni, e se tardo un poco, lo è per dargli più esatto conto di quanto ei desidera sapere. Ti do mille abbracci – Circello, 14 Agosto 63 Tuo affezionatissimo Zio Pasquale I fatti del 9 giugno 1863 nella narrazione e nell’analisi di Giosuè De Agostini. Il giorno 9 giugno 1863, infausto e memorabile nella cronaca di questa provincia beneventana, è segnato a caratteri di sangue per la patria mia Circello. Il mattino del 9 giugno stavano presso il R. Delegato Verdura quasi tutti i graduati della Guardia Nazionale ed altri distinti cittadini occupati all’allistamento delle Guardie a mobilizzarsi. Alle ore 13 circa un Ciccarelli Celestino, ex-soldato e garibaldino (fratello di Ciccarelli Teofilo capobrigante in carcere), giungendo dal contado fa chiamare il vice-segretario Fiscarelli e gli riferisce segretamente essere in Botticella presso S. Matteo scontro tra le truppe e i briganti; uditasi prolungata fucileria. Fiscarelli il palesa al R. Delegato e questi suggerisce essere opportuno spiccarsi la forza cittadina verso la montagna per fare scoverta ove la comitiva facesse ritirata e se battesse il solito sentiero lungo il tenimento di S. Marco per Fontecanale. In poco d’ora si radunano uffiziali, graduati e militi i più animosi, si unisce ad essi il Vice-segretario, l’ex sindaco Cardo Ernesto ed anche Verdura Francesco, ex tenente di Guardia Mobile, nipote del delegato, e il di lui servo. Si dice marciarsi per una scoverta alla montagna, potendo la comitiva sboccare alla volta di Fontana Canale. I partenti sono: Capitano: Zaccari Nicola; Luogotenenti: Tatavitto Giuseppe, de Bellis Nicola; Sottotenenti: Tartaglia Donato, Cardo Emiddio, Fiscarelli Stanislao; Sergente furiere: Flora Teofilo; Sergenti: Petriella Ferdinando, Petriella Roggero, Fiscarelli Raffaele, Petriella Donato, Petriella Pietro fu Vincenzo , Ferraro Eliseo; Caporai furiere: Petriella Teodosio; Caporali: Fiscante Giacomo, Pilla Domenico, Pilla Donato, Basile Beniamino, Gigante Vito, Arianna Raffaele, Agostino Luigi, flora Michele, Agostino Giuseppe; Militi: Agostino Costantino, Zarrillo Domenico, Cardo Domenico fu Fedele, Biondi Vitantonio, De Maria Pellegrino, Del Grosso Donato, Petriella Pietro di Giuseppe; Zanchelli Giacomo fu Domenico; Maddalena Teofilo; Cardo Ernesto, ex-sindaco; Fiscarelli Giacomo vice-segretario; Fiscarelli Giustiniano o Celestino ex-Guardia Mobile; Verdura Francesco ex-tenente di Guardia Mobile; il di lui servo. Partono i soprascritti, tutti armati, distribuite già ad essi le munizioni secondo il solito. Di là dalla montagna oltrepassata la strada Traiana, si fermano a 2 miglia dall’abitato, in contrada Gianferro, punto culminante alle falde della Faieta, estremo sud-est del tenimento di Colle, che scovre buona parte dei tenimenti di Reino, San Marco, Pesco e adiacenze. Non appena ivi giunti a 13 ore italiane, movendo lo sguardo in giro un milite ravvisa i briganti che, oltrepassate le masserie Fontana Canale, marciavano a passo per lo tratturo, uno appresso all’altro, lì a cavallo, uno a piedi alla volta della Difesa di San Marco verso Toppo dei Felci. Tutti li vedono. Oltrepassato da quelli un boschetto, due di essi muovono ratti a dritta a fare scoverta verso San Marco, due altri a sinistra raggiungono una fontana per abbeverare i cavalli. Poi tutti riuniti si fermano come guardando intorno ed avrebbero ben potuto scovrire la nostra forza che stava sull’altura di rimpetto, di cui parte distesa a terra, anche col favore di cannocchiale di cui vanno muniti. Proseguono peraltro il cammino in direzione nord-est. Giunti sopra la masseria detta del “Franzese” o del “Barone”, si volgono repente ad ovest presso detta masseria che giace rimpetto a Collesannita. Smontano ivi da cavallo e si danno a riposare. Distanza tra Gianferro e Franzese circa tre miglia girate, meno di due in linea retta. Eliseo Ferraro (tenuto da loro tre giorni catturato, riscattato dicesi, per ducati 800, dopo la richiesta di ducati 6000) assicurava essere essi soliti rimanere ove smontano fino a sera. Il Capitano e gli uffiziali risolvono dar parte al Sindaco di Colle Sannita della fatta scoverta e si scrive un biglietto d’invito a quella forza: stare la Guardia cittadina di Circello a Gianferro, briganti a Franzese e muoversi all’assalto di concerto. Si spicca un milite, tal Del Grosso Renato, inerme, a celeri passi. Doppia sentinella si piazza alle spalle della forza per spiare se la comitiva cangiasse di sito. Nel frattempo si fa colazione, il capitano, i luogotenenti Tatavitto e De Bellis serviti da Petriella Pietro a piè d’un albero, tuffi gli altri all’ombra di un boschetto contiguo a un quindici passi più sotto, presso una masseria in tenimento di Colle; si consumano commestibili portati con seco e bevande; si procura dell’acqua. Durante la refezione esprimeva il capitano tra i luogotenenti voler proporre a tutti se si sentirebbero forti di attaccare i briganti. Ma contemporaneamente tutti quegli alti ufficiali, bassi uffiziali, militi alzatisi, il Fiscarelli Giacomo esclama: “Capitano, per la Madonna, vogliamo sorprendere ed assaltar la comitiva e se non lo farete ne ricorreremo”. Il capitano giustamente osservava di avere scritto a Colle e che ne attenderebbe le risoluzioni per agire. Non si ammise dai più la risposta, si strepitava, si mormorava non doversi perdere l’opportunità, essere i briganti forse a dormire, essi tutti in animo e pronti, esser viltà e scusa il non marciare prestamente all’assalto; se ne darebbe conto; ed eccitanze simili. Il prudente capitano dovè piegare a quelle spavalderie, facendo però appello ai più valorosi di seguirlo: “Chi viene e chi resta mi fa piacere. Non metterò penna in carta contro chicchessia. mi bastano quindici ma decisi. Venga assolutamente chi il può e il vuole”. Tutti unanimi risposero: “andiamo!”. Il solo Petriella Pietro di Giuseppe espone soffrire ad un piede. Cui il capitano: “E’ tuo solito. Rimani chè mi fai piacere; farai parte della sentinella che resta qui a spiare”. E qui dette ordine di muta ogni mezz’ora, spiare sempre le mosse della comitiva. Se mutasse sito tirare due colpi. Raccomanda non addormentarsi; restar tre di fazione. Dopo breve cammino di tutta la truppa verso il sottostante torrente Reinello, il capitano insinua al luogotenente Tatavitto di andare unitamente a Fiscarelli Giacomo a Colle per accelerare il cammino di quella forza. Il Tatavitto esprime non volersi separare dagli altri specialmente dal capitano, suo compare e indivisibile compagno, Fiscarelli anche persiste, benché poco esperto alle armi. Si ordina fronte. Il capitano dispone marciarsi in due pelottoni. L’uno è comandato dal sottotenente Tartaglia Donato. Si uniscono volontari specialmente a costui tutti i più animosi cioè i sottotenenti Fiscarelli Stanislao e Cardo Emiddio, il sergente furiere Flora Teofilo, Petriella Ferdinando, Ruggiero, Donato, Pietro, Caporal furiere Petriella Teodosio, i caporali flora Michele, Gigante Vito ed i militi De Maria Pellegrino, Cardo Domenico, Zerrillo Domenico, Agostini Costantino con Cardo Ernesto, Ventura Francesco e il suo servo, in tutto 18 individui. L’altro pelottone comandato dal capitano, composto da quei che restavano, cioè i luogotenenti Tatavitto e De Bellis, i sergenti Fiscarelli Raffaele, Ferraro Eliseo, i caporali Fiscante Giacomo, Marino Giuseppe, Pilla Domenico e Donato, Basile Beniamino, Arianna Raffaele, Agostino Luigi, i militi Biondi Vitantonio, Fiscarelli Giacomo, Ciccarelli Giustiniano; in tutto 15 individui; tra tutti, noti cacciatori del paese. Ordinò di marciarsi di conserva alle due sponde sopra corrente del Reinello, per la sinistra del torrente il pelottone Tartaglia, per l’altra quella del capitano. Raccomanda a Tartaglia di battere precisamente la strada percorsa dalla comitiva. Giunto al boschetto attendeva l’arrivo dell’altra linea per assaltare la masseria al “Franzese” o “Pagliaia dell’eremita”. Più lunga ed elevata ed ariosa era la via a percorrersi dal Tartaglia; ombrosa, nascosta, avvallata e rinchiusa l’altra, senza aperto sentiero, dovendosi attraversare siepi e limiti. Tartaglia e i suoi battono la via segnata, incontrano dei coltivatori di granone, uomini, donne di San Marco. Dimandati negano assolutamente aver veduto i briganti, tuttocchè fossero passati davanti ad essi. Giunto il drappello a capo del boschetto d’onde scorgeasi la masseria “Franzese” si scorge lì presso un uomo. Si accovacciano i militi per non esser scoperti, spiano, è sempre uno. La linea comandata dal capitano non giunge. In questo intervallo dei cani mastini si avventando latrando contro alcuni cani di militi cacciatori. Imprudenza d’averli portato secoloro. Dopo ciò non pareva poter differire d’andare avanti. Impazienti ed a passo di carica assaltano e circondano quel gruppo di masserie, ne apron tutte le porte e rovistano. Non vi trovano nulla. Un vecchietto che dormiva in un canapaio rivela esservi stati briganti precedentemente, aver bevuto dell’acqua ed essere partiti da oltre mezz’ora. Di là passano in altra masseria vicina ove del pari niuno trovano. Stanchi dal cammino si sdraiano quasi tutti all’ombra. Chiedono dell’acqua ad una donna che poco distante fingeva non udirli camminando tra il granone a capo chino, e fatta una girata come per farsi vedere da chi la guardasse da lungi, ritorna al suo posto senza attendere alla richiesta. Ciò dà sospetto che la comitiva fosse non lungi. Giungeva la testa dell’altra linea comandata dal capitano, che chiameremo sinistra, il caporal Marino primo, lentamente gli altri e più indietro gli uffiziali. Son le ore 18 e mezzo. Il caporal Marino poco all’ovest della seconda masseria nel guadagnare una prominenza che domina un falsopiano scorge nel basso i briganti che acconciano i cavalli, pronti a montare. Grida “Allarme”! i briganti” e scarica il fucile non a ferire ma in aria, sciagurato! additando che essi sono dinanzi verso nord-est. Tutti sono lesti senza sorpresa. Prendono posto spiegati in linea, non vi sono alberi nè ripari: qualche piccolo mucchio di pietrame sul terreno, bassissimo. Dietro a sì incomode barriere si postano i militi in ginocchio. I briganti alle fucilate montano a cavallo, si allontanano dal sito basso ove stavano, guadagnando l’alto da dominare i nostri, al numero di 11 a cavallo, uno a piede. Due di essi col pedone proseguono verso le montagne, gli altri 9 i rivolgono e si spandono di fronte, rimpetto ai Nazionali, guardando la posizione. Seguita ad arrivare il restante pelottone da sinistra del combattimento. Il capitano, il luogotenente Tatavitto e Fiscarelli Giacomo girano a dritta dominando tutta la linea. Un colpo viene dalla sinistra dei briganti e si crede vibrato dai nostri. Si avverte dal capitano spararsi a pochi per volta, tenersi fermi nel posto. Si sparano colpi dal centro della linea; rispondono i briganti. Due di essi si spiccano alla corsa di fianco contro la nostra diritta. Giunti più vicini scaricano le carabine senza ferire. Ritornano ai compagni. Come concertando tra loro posano alquanto. Immantinenti i due marcian di nuovo alla loro sinistra con le carabine alzate per prendere posizione ed aggirare la nostra diritta. Il capitano ne mira ed accompagna uno, gli tira un colpo senza prenderlo. Contemporaneamente tre altri briganti si distaccano dai compagni e girano con un movimento simile sulla dritta, da prender posto contro la sinistra dei nostri. Il nostro centro è comandato dal solo sottotenente Fiscarelli Stanislao, ex soldato bandista. Il di lui cugino sergente furiere Flora Teofilo tira e il fucile manca il fuoco. Abbandona il posto. Stanislao lo richiama invano. Si avverte un piccol movimento retrogrado. I quattro briganti rimasti nel centro ne profittano e fingon di caricare il galoppo. Il capitano a voce alta comanda: “prendete posto dietro”, accennando al boschetto ed alla masseria pochissimo distanti. Naturalmente occorreva farsi il movimento a passo, fermando sempre il nemico la fila davanti. Ma no. Succede scompiglio, chè a due a quattro a più volgon le spalle e via verso il boschetto ove giunti, lungi dal fermarsi, seguitano a scappare. Il capitano rimasto solo a qualche distanza dal bravo luogotenente Tatavitto e dal Fiscarelli; questi, non esercitato nel maneggio dell’arma si vede perduto. Grida: “Ingrati traditori Circellesi, mi lasciate!” e curvandosi nel campo, occupato da alto frumento, prende la ritirata appresso a Fiscarelli ed a Tatavitto, s’immagini come sgomentato. Tutti si dirigono al basso verso il torrente Reinello. I cinque briganti ai due lati fulminano i fuggenti senza colpirli. Gli altri quattro gli inseguono giù per la china ma il boschetto e il pendio non permettono ad essi di raggiungerli direttamente. Debbono girare, per andare alla sponda destra. Dei fuggitivi chi si asconde, chi sfinito cade, chi prosegue cammino. A circa un miglio dal sito dell’attacco alla sponda dritta si accovacciano nel grano Zaccari, Tatavitto, Fiscarelli Giacomo a poca distanza da loro, stanchi pur essi, oppressi dal caldo estenuante come dalla sete. I briganti vanno giù e su in cerca, eccitati dai Sanmarchesi accorsi in gran numero, uomini armati di scuri e donne che gridano “ammazzateli tutti! uccideteli! stanno là! stanno qui!”. Il cane proprio rivela il sito ove sta Zaccari. Due briganti ad indizio anche di contadini di San Marco gli danno addosso. Gli scaricano a bruciapelo una fucilata in testa e lo finiscono. Lo spogliano. E via. Tatavitto ha l’avventura di ammazzare il suo cane a colpi di baionetta; forse questo grida; pure è scoverto ed è ucciso. Tartaglia aggredito tira contro i briganti. E’ calpestato e fucilato. Si odon voci; la truppa. Fiscarelli era ascoso e forse salvo. Si muove. E’ raggiunto e spento. Muoiono di stento Verdura e Ferraro. Il primo, dopo aver attraversato un campo di sulla dicendo a Petriella Pietro: “Son morto!” si abbandona bocconi in giù; e qui rimane. L’altro è condotto a Colle e quivi spira. Tutto è compiuto alle ore 22. L’avviso mandato dal Capitano a Colle fin dalle ore 15 era giunto. Il sindaco lo ricevè con indifferenza partecipandolo al capitano di Guardia nazionale. La truppa era uscita in perlustrazione appunto verso Decorata e Toppo dei Felci; forse erano in distanza o rivolti altrove se non udirono l’attacco. Rimasti dunque a Colle dieci di essi e 6 carabinieri e terrazzani e numerosa Guardia Nazionale, potevasi e dovevasi all’avviso muovere con competente forza contro appena 12 mascalzoni, se non altro in osservazione alla volta del camposanto, o verso Toppo dei Felci a raggiunger la forza militare. Nessun pensiero si dette alcuno di quei capi al ricevuto invito scritto da un conosciuto capitano, il più bravo e animoso tra i gentiluomini circellesi. Le sentinelle rimaste a Gianferro avean seguito con lo sguardo i movimenti della forza. Cominciato l’attacco al Franzese si ritirarono in Colle, ed uniti alla messaggero ivi spedito, stupiti dal disinfare di quelli, pregavano e scongiuravano i capi ad accorrere (mentre già molti del popolo curiosavano lo spettacolo dell’attacco dalle estreme case dell’abitato). Ne ottennero scherno e beffe udendosi dire: “che hanno a fare questi Circellesi?”. La truppa tornata a Colle alquanto tardi, dopo breve pausa si accingeva a muovere allorché arrivavan le scolte suddette a sollecitare il soccorso, affermando essersi da un’ora e più attaccata la Guardia nostra. Così accelerava la truppa che giungeva tardi per gli estinti, opportuna per la ritirata dei fuggenti e per la raccolta dei miseri cadaveri. Le mortali spoglie degli infelici estinti sono raccolte senza riguardo e senza onore a cura della truppa, trasportati su bestie da soma penzoloni come pacchi recinti di funi, e gittati come ignobili carnami su la nuda terra verso il camposanto, rimossi nel giorno seguente e portati allo stesso modo nella chiesa della Libera. Il solo Tatavitto in casa di Paolucci Salvatore, suo zio e suocero. Per gli altri non v’è un lenzuolo, un cuscino, un segno di carità cristiana là in Colle, di cui molti si vantavan parenti, amici, spesso ospiti, e commensali dei gentiluomini estinti! Questi i fatti. Dopo la fedele narrativa siaci permessa una breve analisi delle circostanze antecedenti, concomitanti e successive per rispondere a qualche saccente aristarco che si è permesso di definire come imprudente, imponderata, temeraria l’azione della Guardia cittadina di Circello e più segnatamente del capitano comandante la spedizione. Non entro qui a disaminare come causa del disastro quel tal discioglimento della Guardia cittadina decretato l’8 aprile e comunicato non prima del 19 giugno, ritardo non si saprebbe da chi e perché occasionato. Certo si è che o, disciolta la Guardia, la spedizione non avrebbe potuto aver luogo o, non composta, non sarebbe forse risultata di elementi certamente eterogenei e contrari tra loro. Scriveva il capitano Zaccari ad un amico in data 7 giugno, due giorni prima del fatal 9, così: “i briganti son quasi sempre in questi dintorni facendo molto male a chiunque ha la sventura d’imbattervisi, ma più ai massari di campo i quali per accudire i loro bisogni sono costretti di stare continuamente in campagna. Quel che è peggio, lo spirito pubblico è qui molto depresso per i continuati orribili fatti che giornalmente si succedono. E quel che più rattrista i buoni si è pure che la Guardia Nazionale poco si presta perchè scissa e perché contiene in sè molto elemento retrogrado. Quindi a mio modo di vedere, per la salvezza di tutti sarebbe indispensabile il suo scioglimento. Allora il comando sarebbe uno, i briganti e tristi sarebbero espulsi da essa; solo così Circello potrà riconquistare l’antico vigore e solerzia. In opposto i malviventi entreranno in paese come ci han fatto sentire”. Non intendo ripetere nulla relativo ai movimenti dell’azione ed al mancato concorso di forze ausiliatrici, su di che si è discusso abbastanza. Tacendo la dipartita dal paese che fu nè più nè meno come tutte le dipartite in perlustrazione nelle quali sempre si aveva mente di poter incontrare la comitiva e perciò si marciava forniti e risoluti, rammenti il lettore che al primo giungere alle falde della montagna vien fatto di scovrire i briganti proprio di rimpetto che si avviano a un determinato ricovero e vi si posano. Tutti gli hanno veduti e accompagnati d’occhio. A tutti è sembrato essere essi stanchi per i sostenuti attacchi e marce e contromarce. L’occasione che si attendeva da molti giorni di imbattersi in essi era assai propizia. Non un incontro a caso ma un assalto determinato si offriva. Vi era un dilemma: o nulla fare o muoversi. Nulla facendo, chi non avrebbe gridato, accusato, calunniato a viltà, a codardia e peggio? Fingere di non aver veduto, tacere, addurre scuse sarebbe ridondato a rimarchevole mancanza di tutta la squadra, almeno dei capi e più di tutti del capitano. Dunque si doveva agire; e per bene eseguire il movimento e conseguire la riuscita stiè bene dare avviso al capoluogo del mandamento, stazione della truppa, la quale in tutti i rincontri appena avvertita corse immantinenti. E in quel capoluogo vi è una brigata di carabinieri, vi è una Guardia Nazionale forte. Partito l’avviso, si discute il da farsi. Il capitano opina attendere risposta, i più al contrario dover muoversi all’assalto, giungendo sul luogo forse contemporaneamente alle forze operanti. il tempo impiegato a far merenda è tanto da far arrivare il messaggio in Colle. La via per Gianferro e Franzese è per tortuosi giri più lunga e disagevole che quella da Colle a Franzese. Eppure si discute anche a fronte della risoluzione che si va a prendere per unanime consenso. E’ da senno chi pria di assumere un’impresa la medita, la studia, la esamina, l’analizza, ne prevede lo sviluppo, a fine di ben cominciarla e felicemente compierla. Quale fu questo esame? Se le persone atte per numero, per qualità, per coraggio, per sentimento e volere; se pei maneggio delle armi tutte adatte; se fornite di munizioni. In risulta sta tutto perfettamente. Se i briganti addestrati, i nostri la più parte veterani, cacciatori, gente risoluta, sperimentata in altre fazioni ai boschi di Santacroce e di Cerce, a Tammarecchia, ai Fuschi, senza dire dei mesi passati a difendere il paese barricato. Le munizioni opportune: quasi tutti avean le proprie; quelle distribuite quel mattino erano corrispondenti al calibro dei fucili e come un sovrappiù del bisogno. Il vantaggio dei cavalli scompariva in faccia al numero ed al coraggio degli assalitori tutti giovani e arditi che dovean attaccare la banda fermata, accovacciata. Arrogi a tutto ciò l’avviso dato alle autorità, al sindaco di Colle, di dove non poteva nè doveva mancare il pronto ed efficace concorso. V’era un solo dubbio: il sentimento, il cuore. Ma scrutare nel cuore dell’uomo non è dato all’uomo. Si giudica dalle apparenze prima, dal fatto dopo. E tutta l’apparenza vi era che invitava al fatto. Non erano ignoti i fatti di Belmonte, Melfi, Francavilla, Paduli e via discorrendo. Si credette là combattere pochi, si discovriron molti durante la mischia. Questo incidente non può dirsi non essere stato preveduto, e il chiesto rinforzo a tempo ne è la prova. Ed il rinforzo di truppe e di Guardia Nazionale di Colle era più che sufficiente. Inutilmente e con perdita di tempo si sarebbe avvisato S. Marco assai più distante, e di compaesani della masnada. Dunque a ragion veduta si va per le poste di una piccola comitiva che si tiene sott’occhio. E un secondo dilemma è di per sè manifesto: o vincere e donare la calma e la quiete a tutti noi, a questi paesi, alle provincie contermini infestate da questo branco di malfattori che potrebbe ingigantirsi come altre fiate i predecessori, e che già conosce ed è in rapporto con molti del contado e forse della terra; o soccombere e pure resterebbe dubbio che ne restassero vittime tanti e specialmente e capi. Via di mezzo non vi fu. il dado fu gittato con l’avviso a Colle. Fermarsi, indietreggiare sarebbe stato gran colpa dei Circellesi. Dunque il motto d’ordine fu “avanti” e si marciò avanti, Si giunse a vista. I briganti erano 11, non uno di più, anzi si ridussero a 9 combattenti. La decisione di una battaglia è spesso l’opera di un momento. Cade un comandante, fugge uno solo, si eleva una voce scoraggiante e tanto basta a sbaragliare un esercito. E questo a mille doppi tra la gente raccogliticcia, non del mestiere, senza disciplina, non avvezza al fuoco, e che non poggia solo sulla sua forza ma su un aiuto che sicuro attende e che non giunge. E qui a me non lice alzare il velo che copre i cuori, nè palesare le discordie precedenti o vicine, le animosità tra individui, la gelosia tra capi e dipendenti e forse tra due paesi e molte circostanze avveratesi nel triste frangente, tutte o molte concorse a far mancare il quasi certo risultato. Lice soltanto, anzi è dovere concludere che il passo fu ben misurato, non imprudente, non temerario, nè la non riuscita è da addebitarsi a colpa del bravo capitano di cui le intenzioni furono eminentemente laudabili, i fatti omogenei e il sacrificio degno di ammirazione e di pietà. Archivio De Agostini, “Brigantaggio”, voi. IL n. 12 e 20

NOTE SUL BRIGANTAGGIO del 1863.
Come nei paesi limitrofi (De Matteis Rocco di Castelpagano!) anche a Circello furono dai briganti prelevati degli ostaggi, a scopo di ricatto. Tra questi, i massai: Ferrara Eliseo e Golia Giuseppe. Il Ferrara, dopo che la famiglia ebbe pagata la somma richiesta, fece ritorno in paese; e, per vendicarsi dell’affronto subito, aizzò i giovani locali a fare una…scorreria contro i briganti, ancora accampati nel tenimento di Colle, dipingendoli vili e male armati!…Così, il fatale 9 giugno 1863, capitanati dal Sindaco D. Celestino Cardo, un manipolo di circa 30 Circellesi si mosse contro i briganti tra cui militavano parecchi di Colle. Lo scontro avvenne tra Colle e S. Marco e propriamente nella contrada detta “Fivoci”. L’allarme intempestivo fu dato ai briganti da un colpo partito incidentalmente dal fucile di Raimondo Tatavitto, in seguito a caduta. L’imperizia dei nostri, assieme al panico diffusosi presto tra di essi, furono la causa del disastro. Cosicchè, appena apparvero i briganti a cavallo, i nostri si dettero a precipitosa fuga! I più timidi furono occultati o in mezzo al grano alto o tra le siepi…; mentre i più scaltri si allontanarono di corsa! Nello scontro a fuoco, perirono 5 galantuomini: Tartaglia Donato, Zaccari Emilio, Fiscarelli Giacomo, Ferrara Elisèo e Tatavitto Giuseppe (la famiglia estinta ed a noi vicina). Qualche giorno dopo arrivò la truppa regia ed allora i parenti più volenterosi poterono – assieme ai soldati – recarsi sul posto per prelevare i caduti o liberare qualche superstite (D. Rocco de Bellis).

LA DEPORTAZIONE DEI LIGURI APUANI NEL RACCONTO DI TITO LIVIO
I liguri che fino all’arrivo dei consoli nella provincia non si attendevano punto di dover combattere, attaccati di sorpresa, si arresero tosto, in numero di circa 12000. I consoli, dopo aver prima consultato il senato, presero la decisione di deportarli lontani dai monti, si che non potessero nutrire speranza di ritorno, in territorio di pianura, convinti che questo fosse l’unico mezzo per porre fine veramente alla guerra in Liguria. Nel Sannio c’era un territorio di proprie della repubblica, già appartenente ai Taurasini; quello i consoli designarono come la nuova sede dei Liguri Apuani; ordinarono perciò ad essi di discendere dalle loro montagne con i figli e mogli e di portare seco tutti i loro averi. Più volte i Liguri per mezzo di incaricati pregarono supplicarono di non essere costretti ad abbandonare le loro case, la terra dove erano nati, le tombe dei loro morti: consegnavano le armi, offrivano ostaggi. Ma poiché non ottenevano nulla non avevano forze sufficienti per ribellarsi, ubbidirono agli ordini. A spese pubbliche vennei deportati circa 40.000 uomini di libera condizione con le donne e con i figli. Vennero dato loro 150. 000 denari d’argento perché potessero acquistare cose di prima necessità nelle nuove sedi. La divisione e l’assegnazione dei poderi fu compiuta da quegli stessi che avevano curato la trasmigrazione, Comelio e Bebio: dietro loro richiesta però il Senato nominò 5 esperti che consigliassero. Portata a tennine la loro non indifferente impresa, i consoli condussero l’esercito a Roma. Il senato decretò ad essi il trionfo, e furono i primi che ottenessero quell’onore senza aver combattuto. Davanti al cocchio trionfale procedette soltanto la vittima per il sacrificio; non ci furono prigionieri o prede da sfoggiare in quel loro trionfo, né altro che potesse esser donato ai soldati .

LA STORIA DI CIRCELLO
Circa 7,5 milioni di anni fa la zona emerse dalle acque marine e la presenza dell’uomo, come è testimoniata dalla scoperta fatta dell’insediamento ad Isernia, risale a tempi remotissimi. Il territorio di Circello anticamente fu dominio della tribù sannitica dei PENTRI. Lo storico Tito Livio ci fa sapere che successivamente l’agro di Cìrcello fece parte del Sannio Irpino e questa zona era denominata “TAURASIA”. L’Alto Sannio fu, poi, conquistato con le guerre sannitiche dai Romani e divenne “Ager Pubblicus” di proprietà del popolo romano. Il centro storico è costruito sulle falde di una rupe scoscesa sulla quale si staglia un imponente castello di origine normanna. Il toponimo, anticamente Cercellus, deriva da quercus o cercetum (la quercia è l’albero più diffuso dell’Alto Tammaro). L’agro di Circello è ricco di storia. A pochi chilometri dal centro urbano si trova la contrada Macchia, sede dell’antica capitale dei Liguri bebiani, qui deportati nel 181 a.C. dal console Bebio. Questa si scisse in seguito in Macchia saracena, Forcellata e Casaldianni. Una di queste tribù si insediò proprio nella zona di Circello fra le contrade di: Macchia, Casaldianni,Campanaro, Forcellata, Fontana la Spina, il torrente Chiusolano e la valle del Tammarecchia. Ai Liguri si aggiunsero in epoca successiva i veterani delle varie guerre per assegnazione di territori ancora liberi. A testimonianza di questa permanenza abbiamo la famosa “TABULA ALIMENTARIA” ritrovata a MACCHIA nel 1831 dal cav. Giosuè De Agostini in un suo podere. La Tabula Alimentaria è datata all’anno 101 d. C. ed è più antica di quella ritrovata a VELEIA. Elenca i fondi e i proprietari sui quali era stata concessa, per volontà dell’imperatore TRAIANO, una somma di denaro in prestìto, all’interesse del 2,50%. Il ricavato degli interessi andava a favore dei fanciulli poveri, assicurandone gli alimenti. A Macchia sorse una importante città dei Liguri che attraverso alterne vicende fu probabilmente distrutta dai saraceni tra VIII e il IX secolo. I superstiti si rifugiarono su un promontorio roccioso protetto tra le valli del torrente Torti e Tammarecchia ed ivi costruirono le prime case dando l’origine al centro di Circello. Durante la dominazione Normanna nella parte più alta fu costruito un poderoso castello (XI sec.) ” Il borgo medioevale aveva sette porte con sette camminamenti e sette cinte di difesa interna, con un passaggio segreto che da S. Nicola portava al castello e che veniva usato sia dai difensori che dalla popolazione nei momenti di pericolo” ( Circello è il mio paese). Al tempo di Guglielmo il Buono, Circello dipendeva dalla contea di Cisterna e Pietracatella ed era feudo della famiglia Alemagna. Non è noto come gli Alemagna persero il feudo né chi lo possedette fino al 1343, quando passò a Niccolò Scigliatis, la cui nipote Mafalda lo portera in casa della Leonessa. Nel 1457 venne in possesso dei Carafa, potentissima famiglia soprattutto al tempo di Alfonso I d’Aragona. Il 3 giugno 1496 si combatté la battaglia di Circello, ricordata dal Guicciardini, dove il marchese di Mantova, Giovanni Sforza, signore di Pesaro ed i Veneziani, alleati di Ferdinando I d’Aragona, sconfissero i Francesi, gli Svizzeri e i Tedeschi comandati da Gilberto di Borbone, duca di Montpensier. Nel 1536 Niccolò Maria Di Somma lo acquistò dal viceré Filiberto di Chalon, principe d’Orange, acquisto confermato solo più tardi da Carlo V. Nel 1548 il viceré Don Pietro di Toledo diede l’investitura di questo feudo a Scipione Di Somma, figlio di Niccolò, insieme a Colle (attuale comune di Colle Sannita) e agli altri feudi di Casaldianni, Macchia e Forcellata. Nel 1581 fu concesso a Scipione Di Somma il titolo di marchese di Circello ma questi lo rifiutò in favore del figlio Ferdinando, tenendo per sé solo il titolo di principe di Colle. La casa “Di Somma” ha mantenuto il possesso del feudo ininterrottamente dal 1528 fino all’abolizione del feudalesimo. Il borgo, poi, fu protagonista della rivoluzione partenopea del 1799, quando si schierò con i giacobini di Napoli. Circello nel periodo feudale ospitò per lungo tempo la ” Camera Marchesale” che amministrava la giustizia e ” fu tra i primi Comuni a dare la propria adesione alla nascente provincia di Benevento inviando al generale Garibaldi, in Avellino una delegazione guidata dal dott. Nicola Tartaglia e da Luigi e Nicola Zaccari. (Circello è il mio paese) Circello fece parte della Capitanata fino al 1809, quindi passò alla provincia di Campobasso e nel 1861 a quella di Benevento. Dopo l’unità, fu contro il brigantaggio e da allora la sua storia si inserisce in quella nazionale o meglio del mezzogiorno d’Italia. Circello all’inizio del novecento ha vissuto un notevole calo demografico dovuto prima all’emigrazione in massa verso le Americhe e negli anni cinquanta verso l’Australia, l’Argentina, il Venezuela, la Germania, la Svizzera e la Gran Bretagna. Verso gli anni cinquanta con la morte di Vincenzo Di Somma si è estinta anche la famiglia ducale di Circello che possedeva il feudo di Casaldianni fin dal 1548. Recenti scavi archeologici stanno portando alla luce l’antica struttura di Bebio, capitale dei Liguri bebiani.

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